mercoledì 7 novembre 2012

I modi esausti e potenti del candore nel giardino del mondo

di Ranieri Frattarolo


Se la luce che concede il dono della vista ne sbianca a un tempo referenze, segni e colori, non ci salveranno la spuma di candidi lavacri né gli aloni di un nuovo miraggio, immersi nell’incessante rito lustrale e nell’imperativo impulso del riscatto: nel naufragio, all’approdo, ciò che accende di vita nel bianco alla fine spegne nel nero o ricandida…

Ulisse è sulla spiaggia, svenuto, rotolato dall’impeto delle ultime onde, ma salvo. E’ bianco dello spolvero di una sabbia dalla grana fine. E’ bianco della salsedine del mare che ancora lo avvolge e della carezza infranta e leggera di una spuma vergine, subito perduta e rinnovata dai conati sofferti della risacca, che sembrano respirare per lui. La battigia lo battezza a un’ennesima rinascita e lo biancheggia per ultima, vincendo sul biancore accecante della luce e sull’invadenza nivea delle nuvole basse, sul calcare eroso di rocce affioranti e sui sentieri sfarinati di conchiglie e ossi di seppia, che conducono, inconsapevoli come una scia, ai candori disseccati delle ramaglie degli alberi del mare e a un balenio di gabbiani litigiosi, che alzano indispettiti i loro biancori alati fra acute strida. In alto, nella lontananza delle dune, una fuga di coste eburnee: capovolte e immacolate vestigia di un cavallo possente, risuonano come canneti di palude filtrando il vento. Il figlio del dio che ha offeso, gli ha concesso il dono e il privilegio del viaggio e lo incanta ora con la voce profonda del suo galoppo scalciante, accompagnando lo schiocco dei flutti in ritirata dalla rena e dalla sua anima e l’ebbrezza e la delusione dell’arrivo…

La grande cetra è di un bianco più pallido e permanente della sabbia venata dal giallo solare, e risuona di solitudini veloci, dalle sonorità cupe come l’eco delle conchiglie vuote, agili a percorrere in un baleno l’incanto silenzioso del mondo e l’anima dell’eroe. L’essenza di quel corpo ne è trafitta nell’inconscio, contaminato da ogni colore, ma che ora risuona nel bianco di quelle verità, in quel bianco di vita e di morte, di paura e calcinazione, in una bava d’azzurro verde che schiuma nuda di riflessi su di una spiaggia sbiancata. Non possiamo comprendere l’antico: il passaggio della soglia dell’Averno aveva il colore del bianco ipogeo delle ossa o quello di bende eterne e non il bianco delle ali dei gabbiani o quello delle nuvole del cielo e la clessidra di sabbia bianca , attraverso l’omphalos di vetro stretto del destino, indicava non il tempo, ma i suoi rovesci e le quantità di cielo e terra che mescolate si concedevano alla vita. Non possiamo comprendere la vita degli antichi, perché essa è ora il nostro sogno, un sogno bianco e distaccato di statue candide e solenni, di visioni divine ancora accese di splendore, come ceneri ai margini del pulsare di un fuoco muto e senza crepitii, che lambisce inudibile spazi ormai fantasticati. Oggi un bianco biblico ha smesso di rivestire il panteismo degli elementi e di espanderci tra gli dei, ma ci sospende ancora su cosmogonie dell’anima, scenari privati e particolari in cui risorgiamo, recuperati dai ricordi degli antichi paesaggi del mito e ricostruiti con il luminismo punteggiato delle figure di pietra bianca presenti lungo le grevi teorie di siepi dei giardini, che sembra risuonare di una melodia discreta di albe nuove e personali, sullo sfondo del basso continuo di una notte di verdi cupi. Nella Genesi, sul nero dell’abisso, il bianco nasce e s’illumina scenograficamente della leggerezza dell’occhio divino, galleggiando evanescente per poi trasformarsi nello sfondo diurno della creazione, diffondendo il giorno e partecipando proteiforme ai suoi mille profili. Divenuto la luce visibile di Dio, il bianco recita ancora oggi il suo ruolo di sfondo di dimensioni terrene e ultraterrene e di punto di partenza spaziale e di arrivo temporale in occhi neonatali e in quelli dei defunti, in qualità di psicopompo dell’anima, e non occupa più i nostri spazi psichici e la natura essenziale delle cose, ma semplicemente li circonda, come il bianco degli occhi cinge l’iride. Il bianco tende a rinforzare tale ruolo, nell’inconscio collettivo contemporaneo, con le quinte bianche appartenenti alla fenomenologia degli oggetti e delle sostanze comuni, caricandosi del potere della cancellazione dei suoi contaminanti e dell’abrasione del mondo cromatico di superficie, cioè del potere di affermazione, con lo scolorimento, di ciò che rimane quando tutto il resto scompare. Il bianco della carta sbiancata ben rappresenta questo potere, nutrendo programmi, desideri, analisi e memoria della nostra formazione e aprendosi come un vero libro bianco sui cicli esistenziali della vita. Il bianco del mito affiora ancora nei manufatti umani di argilla chiara, nel legno, nel sasso, nelle ossa, dove insiste indisturbato con uno straordinario livello di sopravvivenza cromatica, insito nel suo essere non rivelazione, ma manifestazione divina dell’essenza stessa delle cose. Gli altri colori emergono tragici, impercettibili e stremati attraverso lo sterrato dell’archeologo o spuntano, in modi più magici e meno volgari, meno ipotetici e sottratti, attraverso gli amorevoli livellamenti delle buche d’impianto del giardiniere. Non scoperti nella terra, ma scoperti dalla terra e indotti da essa a librarsi liberamente nella luce e nelle forme vegetali, affiorando nel tessuto di gemme, petali, bacche e pomi, cortecce e amenti che li declinano sobriamente o in maniera accesa, rinforzandone le tonalità pastello nelle velature dell’ombra o esponendoli senza pentimenti allo schiarimento del fulgore diretto del pieno sole. I colori così esposti sbiadiscono spesso inevitabilmente, partecipando del fluire del tempo nel segno biblico della luce e tornando allo sfondo di un biancore originario quando tendono a perdere l’identità cromatica, perché il bianco è come il genere femminile della sessualità, una sorta di tinta base cui si aggiungono tutte le altre con vari riti d’iniziazione. In giardino i colori si conservano tenacemente nel loro pigmento solo con una forte volontà maschile di separazione e di proiezione e attraverso un corredo materiale di vari spessori e differenti incarnati di fibre vegetali, che assorbe i raggi o li riflette su sensibili e impercettibili inclinazioni, con varie dimensioni, densità di affollamenti ed estensioni di foglie e petali sui rami. I colori della tessitura vegetale si effondono così, con sorprendenti alternative di opacità e trasparenze, su retinature filigranate che ne articolano, all’interno delle partizioni dei tessuti, la successione di sfumature. Solo nelle faglie e nelle vene della roccia l’invaiatura dello spettro cromatico si conserva inalterata nel proprio variegato sorriso di luce, ma in giardino non sempre i colori recedono affievolendosi sul bianco. Spesso assumono l’aspetto naturale di candori espliciti e diretti, mitici, profumati e pronubi più delle altre tinte, in habitat dove circondati di oscurità ne vengono a loro volta segnalati, magari macchiati, appartenendo a radici che la terra ha inghiottito, similmente alle materie spatinate, spellate, raschiate, restituite dagli scavi stratigrafici. Quest’ultime, con quell’aria esausta e svincolata, inaridita o intrisa, debole della fragilità della polvere, difendono tenacemente e in misura tanto più energica, vigorosa e paradossale il loro laconico mistero, negli stessi modi con cui funghi, penicelline e batteri, tramano anch’essi in bianchezza un’ardita conciliazione tra la potenza e il disfacimento del mondo. Avviene però anche il contrario e il biancore dei boccioli di molte rose e d’infinite fioriture di bulbose, manifestato inizialmente con pallori virginali, si scompone spudorato in piena apertura di corolle attraverso umori biochimici e d’incrocio genetico che si tingono di porpora e violetto, d’azzurro e d’ogni variante del giallo e dell’oro o si contamina di sentori cromatici appena avvertibili, che affiorano in un impercettibile alito al di sotto del viraggio leggibile della velatura. Sempre il bianco dissipa l’incertezza cromatica di petali e pistilli, quando non sanno esattamente come tingersi, striandoli e puntinandoli di aloni o strisciandoli di lattici gocciolanti e densi, e con lo stesso colore delle creature che attraversano il confine tra il reale e l’immaginario, si libra in inconsistenze soffici di ciglia, barbe, filamenti e capsule cipriate di semi nel vento o ingrassa sotterra in tuberi e bulbi e s’infiltra, in magiche simbiosi, nella fitta rete della penetrazione apicale, sulla punta delle radici più curiose e intraprendenti. La natura del bianco è a un tempo colore, spazio-superficie, luce e spettro cromatico ed è contigua ai concetti di trasparenza, opacità, cancellazione, argento, luminosità, giallo e chiarore, con cui si confonde e da cui si distingue. Nella nebbia dello sfumato paesaggistico o leonardesco la qualità del bianco comprende in maniera singolare sia i valori effusivi, biblici, della modernità, sia quelli intensivi e immanenti, panteistici, della classicità: corrispondente visibile sul piano tonale dell’animo umano, il bianco “alla maniera del fumo” ne rivela i trapassi continui dell’essere, la varietà e variabilità delle sue qualità generalmente impermanenti. Essendo d’altronde il bianco e il nero non solamente colori ma spazio, il bianco sfumato e gradualmente amalgamato ai trapassi di nero e di grigio, riesce a trasfondere le dimensioni spaziali del buio e della luce l’una nell’altra e cioè la superficie della luce sopra e dentro i volumi abissali insiti nel buio e rivelatori della metafisica del mondo oscuro. La foschia chiaroscurale nutrendosi del simbolismo profondo della psicologia dell’inconscio è in grado di fondere, attraverso i valori spaziali della luce bianca e del buio, la struttura dei mille antichi fuochi divini della psiche individuale nell’abbaglio effusivo e universale dell’unico Dio della modernità. E’ per questa ragione che nei grandi giardini le caligini e le brume proprie del paesaggio atmosferico cangiante, favorite dal disegno di opportune architetture vegetali e riprodotte in maniera non arbitraria, segnano i percorsi e gli scorci prospettici della pregnanza di ombre e velature originariamente metafisiche. E’ il matrimonio mistico dell’animo umano con l’anima della natura, la fusione creativa della Genesi nello spirito d’Arcadia, che s’imprime col vento, con le carezze delle piante e i suoni e gli odori, nel tatto, nell’olfatto e nell’udito dell’uomo, in modi solo parzialmente trasmissibili alle altre arti con tale orchestrazione d’intensità. Agli antipodi del morbido digradare di questi bianchi passaggi appare la luce calda e soffusa del tramonto solare, macchiata da contorni d’oscurità netti e bassi e quella del bianco dei pleniluni nevosi, dai chiarori contrastati da laghi d’ombra ricchi di sfondi più profondi. Entrambi ci portano agevolmente dal sole alla luna e dalla spiaggia del mito odisseo a un mito spiaggiato nella banalità interpretativa dell’imitazione di massa e offerto in sacrificio d’ostensione ai volenterosi epigoni sui manuali d’orticoltura: il giardino bianco di Sissinghurst Castle, creato dai rigori poetici di Vita Sackville-West in una gelida notte d’inverno… bianca di luna e di neve. Siamo sempre pronti a parlare di colori, ma troppo schivi a viverli e il bianco per noi s’immedesima, in taluni irripetibili istanti, con qualcosa che c’irretisce per sempre, in una concentrazione magica della bellezza e del significato del tempo della vita. E’ quanto accadde alla poetessa in stivaloni e insigne baffuta giardiniera inglese che coniugò altrettanto bene botanica, colorismo e architettura verde tra ‘800 e ‘900. Il progetto del giardino bianco in realtà nacque all’insegna del grigioblu e del bianco e si giocò in direzioni che richiesero cultura visiva, esperienza di pratiche orticole e sensibilità educata da vastità di letture: una sapiente analisi strutturale in spazi quadrati della morfologia floreale dei rampicanti bianchi, allevati su pergole della stessa forma di quelle compartimentazioni e sposati a un tripudio di argenti cinerei e di fioriture terricole più o meno immacolate o bluastre di bulbose e perenni. La gentildonna alternò sulle pergole, fioriture differenziate per dimensioni e sfumature di bianco, per grandezza di corolle e tipo di fogliame, calibrando esemplari a offerta variata di portamento e inclinazione di foglie e fiori. Diversità di “pieni” vegetali di corolle e di verde e di “scansioni vuote” di luce e d’aria componevano la trama minuta di queste composizioni, trapuntando coperture dagli adombramenti minimi, ma differenziati e plastici. Studi cromatici rigorosi selezionarono strati di fioriture simultanee o cronologicamente successive che sprigionando spontanee associazioni di profumi e aromi offrivano colori studiati e selezionati per risplendere nella riflessa luce lunare o in quella serale, e non nei raggi del giorno. Studiando l’altezza delle palificazioni d ei pergolati, rispetto al rigoglio delle piante argentate e a foglia grigia situate nelle aiuole a livello del suolo, Vita Sackville-West giocò con gli effetti della lontananza sulla percezione del colore, distinguendo le due diverse modalità dello sguardo rivolto a terra e rivolto verso l’alto e operando con il primo sulla vicinanza, analiticamente come uno zoom, sui contorni unici di ogni singolo fiore e con il secondo sulla distanza, sinteticamente come un grandangolo, garantendo la fusione cromatica dell’indistinto. Il risultato fu il contrasto spettacolare tra lo sfumato della macchia pittorica delle coperture in alto e la visione scandita di un colore discreto, perché separato all’interno di ogni corolla, nelle aiuole in basso: due vedute che corrispondendosi in armonia cromatica, rimandavano meravigliosamente l’una all’altra. La delineazione di contorni più nitidi e ravvicinati nelle piantate a terra conservava però pur sempre un effetto di massa latente: nei quadrati di spettanza, il “vuoto” collettivo di svettanti spighe, pannocchie, corimbi e ombrelle, colti nell’insieme, si contrapponeva incisivamente, come superficie di terra, al “pieno” degli aerei volumi coperti di verde e fioriture delle pergole, declinando su scala maggiore e su due piani differenti in alto e in basso, il gioco dei vuoti e dei pieni minimale e complanare, di aria, foglie e petali, presente nelle strutture rampicanti delle tettoie fiorite. Spalliere da muro completavano lo scenario, in alcuni punti, integrando la loro verticalità con i piani orizzontali, sfalsati, dei fiori della terra e dell’aria. Nonostante l’esaltazione dell’ingegno creativo profuso nel progetto, lo sguardo profondo della sua articolazione, improntato alla luna e alla sua luce o a quella del suo annuncio crepuscolare, non viene mai eccessivamente spiegato e solo raramente menzionato. La luna generalmente risplende su contorni deboli, affievoliti dall’ombra. Le sagome che risultano da tale adombramento sono sottratte alla cancellazione del buio, ma accorpate con effetti di massa nei chiari di luce riflessa lunare, rivelando effetti unificanti di biancore analoghi a quelli dell’omogeneità nevosa. Lo sfondo nero del firmamento stellato rinforza il biancore dei fiori ricadenti e sospesi e l’argentatura bluastra delle foglie da aiuola, arricchendoli delle trasparenze del plenilunio nella penombra di un’oscurità analoga al crepuscolo solare. Perfino il ritaglio di sentieri e corridoi, in uno spazio non grande e chiuso da una siepe e da un muro, risente dell’espansione brillante della ghiaia chiara nei lumi della notte. Un risultato complicato, realizzato da Vita Sackville-West con modestia pionieristica all’interno di una tradizione inglese che già conosceva l’applicazione dei principi della pittura di paesaggio alla composizione dei giardini e che faceva ripetere a Gertrude Jekyll “se un brutto fiore ha quel punto di bianco si richiede ugualmente nella bordura, perché non è mai veramente inutile e neppure brutto”. Il giardino bianco immaginato o sognato a occhi aperti nel candore notturno dell’inverno e suscitato dagli effetti del magico irradiamento della luna sulle bianche coltri è spontaneamente evocatore dello spazio nevoso: uno spazio misterioso, denso e carico di significati, che cela come l’ombra l’invisibile, suggerendo una seconda fuggevole dimensione della realtà che sarà bene indagare. Un duplice manto di luce e di buio, un manto di sepoltura, lega la neve all’ombra e riconduce alle alterità dell’oltretomba e del sonno letargico della natura dormiente, ma non solo. Altre ragioni rinsaldano quest’identificazione, quali per esempio il suo stesso ciclo vitale. Bianca è la morte, bianco il sudario e bianco il fantasma: tuttavia posandosi e rinascendo al suolo la neve vive, inalando e traspirando l’aria da cui è venuta nei respiri delle sue porosità, e infine muore, esalando il suo spirito in un gelido e rigido rigor mortis di ghiaccio, sempre più annacquato e liquido, quando decide di sciogliersi come un cadavere. Mistico emblema delle nozze fra cielo e terra, la neve realizza una fenomenologia d’inversione cromatica dell’alto e del basso, con la terra che sublimata dal cielo si trasforma da nera in bianca e stupisce ancora per la complessità del suo meccanismo simbolico. Come cristallo di ghiaccio, serba l’essenza dell’acqua che custodisce, ma cadendo dall’alto e sedimentando i suoi strati assume l’aspetto e la funzione intima, l’abbiamo appena detto, di terra e di cielo capovolto, le cui nuvole diventano scintillio di suolo. Il bianco nevoso guadagna così le dimensioni dell’aria, della terra e dell’acqua e per lo splendore radiante e riflesso della sua luce, quella del fuoco. Possedendo copiosamente i quattro elementi classici della cosmogonia, questo bianco è un vero e proprio universo totalizzante, calato in un paesaggio di lentezza e di vuoto che si presenta appena creato, poco nitido e insieme purificatore e fecondo, accecante e opaco, di un effimero che scaccia contorni, orizzonti, confini. Se la luce ariosa è il verbo parlante di Dio, la neve è il suo silenzio terrestre, lunare e riflesso, rievocatore di una vibrazione bianca in un tempo sacro di creazione. Tuttavia questo mondo generato ed emerso dalle acque si sospende e stalla nel gelo solido e luminescente di laghi rovesciati fatti di neve, i cui riempimenti non premono all’ingiù, in bacini o in cavità carsiche, ma si affardellano all’insù, sui loro piani riproiettati al contrario, dove accumulando si difendono e dissetano la terra senza sommergerla. Le profonde concavità liquide si trasformano in dossi e gonfiori schiettamente superficiali e terrestri e la pioggia, in addensamenti su pietre e rami, dove attecchisce una luce bianca che non cala dall’alto, ma è anch’essa soggetta a inversione, perché s’illumina sempre più nello sprofondare del sottosuolo nevoso , come le fosforescenze degli abissi marini. E’ vera luce del giorno, più abbagliante del pallido chiarore di un’aria che si perde in foschia. E’ luce che acquista al tramonto valori gessosi. Come il gesso sulla lavagna, la neve nella notte non si limita a patinare l’oscurità, ma vi entra con un chiarore che s’illumina di mondi, sposando grafismo e luminismo, perfino nel buio più totale. Di giorno, le masse della nevicata invadono la vista e agiscono come un immenso occhio bianco su di essa, ferendola e disorientandone la focalità. La neve riesce a introdurre di sbieco i candori della distanza nella messa a fuoco ravvicinata di ciò che si sta guardando da presso. Lontananza e vicinanza si fondono di un bianco uguale che entra comunque nell’occhio, risucchiando l’intera massa nevosa del paesaggio. L’osservazione di un qualcosa, diventa l’osservazione del tutto, ma lo scenario finale non si modifica significativamente, nonostante la connessione tra particolare e generale, tra vicino e lontano. Lo spazio nevoso è soggetto ai contrasti di una doppia deriva ottica, d’ingrandimento estensivo e di riduzione concentrata dello spazio, entrambe dovute all’effetto di alterazione della profondità di campo da parte del bianco. La prima, consiste nell’omogeneità di una campitura nivea che amplia un paesaggio mancante delle partiture cromatiche orizzontali, cancellate, e di quelle ondulatorie verticali, ammorbidite, la seconda, di segno opposto, che contrae lo spazio, grazie ai tagli operati da uno sguardo che letteralmente coglie alfa e omega, scivolando sul brillio nevoso. Il collegamento al volo di punti d’innevamento anonimi e anche distanti, non impegna l’occhio nelle pause d’individuazione dei cromotopi, ossia dei luoghi / colore che contrassegnano la composizione di un paesaggio non ammantato, ma sepolto e ormai invisibile. Siamo dunque privi dell’identificazione della distanza percorsa dalla nostra visione e dell’intuizione del tempo necessario a coprirla attraverso un reale trasferimento fisico. Slittiamo su di uno spazio corto e breve, dominatori di multiple e virtuali bilocazioni, come i santi o come le ombre che ritornano… per evidenziare nuovi punti di contatto con la neve. L’annullamento delle distanze, l’inglobamento oculare del generale nel particolare, lo sfalsamento dei piani del suolo, il congelamento sonoro, l’impedimento del movimento, l’ossificazione psichica d’impressioni permanenti ed essenziali in attimi di un’acutezza che non scorre in flussi di pensieri ed emozioni, ma diventa imprinting, la cancellazione della pelle antropica del paesaggio, sono i segni di una nostra morte rituale durante l’inverno e della cecità del bianco, che si esprime nel segno della massima luce, annegando i colori e fondendoli nell’abbacinante istante di un tempo sospeso. E mentre il giardino torna a essere neve e in quanto neve, paesaggio, gli spazi domestici, non più tetto, rimessa, legnaia, sono anch’essi parte della glaciazione di un universo nuovo e più antico, che avvolge i luoghi, e divengono partecipi della sua essenza in una metamorfosi di sottrazione e rinnovamento. L’epifania archeologica della neve cancella, appena fuori casa, la soglia di proiezione del nostro io verso l’esterno del mondo, mutando ogni cosa in detriti e vestigia sepolte, che una volta ci appartennero e in cui ci riconoscemmo. Siamo così avulsi e immedesimati in questa perdita da essere doppiamente spiriti in pena, accompagnando al disappunto l’osservazione emotiva di passi tracciati come una semina di tanti “dov’ero”, istantaneamente sprofondati, allargati e segnati dall’oscurità dei calchi geologici, in un candore che ormai è efflorescenza salina di una pietrificazione millenaria. Giunti a questo punto, vaghiamo turbati all’intorno, consapevoli di essere inconsistenti fantasmi colti da una morte antica che ci colse improvvisa e che rifiutammo. Vorremmo gridare, per l’estinzione di massa del nostro piccolo mondo di affetti precipitati in un altro mondo, ma suoni attutiti come un sussurro, crocchianti e secchi, simili a scoppi di bolle, sottolineano un silenzio di tomba che ci ghiaccia e ci conforta insieme. Pervasi dalla luminescenza di quel bianco, lo sappiamo ora spirito del luogo, custode dei segreti auspici di antichi segni d’ombra, di allineamenti d’astri e del verso orientante dei venti.