giovedì 24 gennaio 2013

Questo è il blog di Selvatico Spore

Benvenuti questo blog ! A dicembre 2012 sono state inaugurate le sedi della mostra "E Bianca. Una parola diversa per dire latte", secondo episodio del progetto Selvatico. Spore.

Le mostre di Bagnacavallo, Cotignola e Massa Lombarda
resteranno aperte fino al 27 gennaio 2013


orari: giovedì e venerdì dalle 15 alle18;
sabato, domenica e festivi
dalle 10 alle 12 e dalle 15 alle 18

Ecco un resoconto della inaugurazione, in un post del blog Ravenna 2019


Vi aspettiamo ai prossimi appuntamenti collaterali (visite guidate, pranzi, convegni, laboratori, ecc.)  
Tra cui segnaliamo:

Domenica 20 gennaio 2013

> SELVATICO BAMBINI tour

ovvero piccolo viaggio nella Romagna bassa

Una visita guidata speciale per 20 bambini alle 6 mostre di
E Bianca. Una parola diversa per dire latte


Ore 10 Partenza e ritrovo al Museo Civico delle Cappuccine

Ingredienti

- Un po' di cose vedere e qualche storia da ascoltare

- 6 paesi (non troppo lontani tra loro)

- 1 quaderno per disegnare dal vero, matite, biro, gomme poche...

- 1 pulman da 22 posti che ci porta a spasso con dentro 1 autista serio,
   2 maestri dell'Arti e Mestieri ed un numero imprecisato di bambini

- Un pranzo tutti insieme in un ristorante o pizzeria (da definire)

Ore18 rientro a Bagnacavallo

Il costo per tutta la giornata, comprensivo di pullman e pranzo, è di euro 15 a bambino.

La prenotazione è obbligatoria
info@selvaticospore.it / 0545 908 879 / 0545 42110 / 320 43 64 316



Le mostre rimarranno aperte fino 20 gennaio 2013 (a Lugo, Alfonsine e Fusignano) e fino al 27 gennaio 2013 (a  Bagnacavallo, Cotignola e Massa Lombarda).

Gli orari sono: il giovedì e venerdì dalle 15 alle 18, mentre il sabato, la domenica e festivi dalle 10 alle 12 e dalle 15 alle 18.

sabato 5 gennaio 2013

Tabula bianca

 

di Alberto Giorgio Cassani


Dopo aver elencato i motivi per cui il bianco è uno dei colori più importanti nella vita dell’uomo (esprimendo l’idea di bellezza, potere, gioia, innocenza, spiritualità, ecc.), Herman Melville, nel famoso capitolo XLII di Moby Dick (1851), La bianchezza della balena, per voce dell’io narrante Ismaele, prova a spiegare i motivi per cui il bianco ispira, invece, un sentimento di “terrore”: «Eppure, nonostante questa montagna di associazioni con tutto ciò che è soave e venerabile e sublime, sempre nell’idea più profonda di questo colore si acquatta un che di ambiguo, che incute più panico all’anima di quel rosso che ci atterrisce nel sangue. [...] Era la bianchezza della balena che sopratutto mi atterriva».
Tra le varie spiegazioni, Ismaele ricorda come «nessuno possa negare che nel suo più profondo, ideale significato, la bianchezza evochi nell’anima come uno strano fantasma». La bianchezza, infatti, non fa che aumentare «il terrore di cose già terribili», determinando una sorta di «estasi paralizzata» di fronte a «quel candore».
Ancora nel finale, però, Ismaele non sa darsi completamente ragione del carattere perturbante del colore bianco: «non abbiamo ancora risolto l’incantesimo di questa bianchezza né trovato perché abbia un così potente influsso sull’anima».
Infine, però, una risposta la trova. Il bianco è un vero “simbolo”, duplice, come tutti i veri simboli: «simbolo [...] di cose spirituali» e, in uno, «causa intensificante nelle cose che più atterriscono l’uomo». Questo perché forse, come spiega Ismaele, «nella sua essenza la bianchezza non è tanto un colore quanto l’assenza visibile di colore e nello stesso tempo la fusione di tutti i colori: avviene per questo che c’è una tale vacuità muta e piena di significato in un paesaggio vasto di nevi, un incolore ateismo di tutti i colori, che ci fa rabbrividire?».
«Sicché – conclude Ismaele – tutta questa Natura deificata non fa che dipingersi proprio come una puttana che copre di vezzi il carnaio che ha dentro», che non è altro che un “sudario bianco”.
È forse un caso che gran parte dell’architettura del Moderno abbia scelto il bianco come
colore dominante?
C’è una foto che ritrae Casa Farnsworth (1845-1951) di Ludwig Mies van der Rohe, bianca nel paesaggio innevato di Plano, nell’Illinois. La perfetta, algida bellezza della sua struttura in acciaio bianco – in mezzo al bianco della neve – provoca un po’ di quell’estraniante inquietudine che angustiava Ismaele. Non ho citato a caso Mies.
Avrei potuto aggiungervi Le Corbusier (anche se lui, accanto al bianco, usa anche i colori primari, giallo, rosso e blu), fino a Richard Neutra e Marcel Breuer.
Bianche, soprattutto, sono gli esterni delle case di Adolf Loos, che fanno tabula rasa di ogni delittuoso ornamento jugendstil; bianco l’intero quartiere del Weissenhof a Stoccarda nel 1927, raffigurato ironicamente sulle cartoline dei detrattori del Moderno come un villaggio arabo.
Nel profetico e straordinario romanzo Sulle scogliere di marmo di Ernst Jünger del 1939, il bianco del Mediterraneo è sinonimo di civiltà contrapposto al nero dei boschi del Forestaro: la lotta – impari, in quel momento – tra il Bene e il Male. Forse il bianco dell’architettura del Moderno voleva semplicemente fare piazza pulita di tutti gli accademismi del passato e guardare ad un futuro migliore, ad una mitica Neue Welt. Un nero cupo ne seguì, come Jünger aveva previsto. Il bianco è un simbolo ambiguo, come aveva capito Ismaele.

sabato 10 novembre 2012

Mostrare, moltiplicare, comunicare: la rete dei musei della Provincia di Ravenna

 

di Eloisa Gennaro 

 


Selvatico Spore è un progetto che fa dei musei locali un volano per arrivare ad altri luoghi e per comprendere altri contenuti. E bianca è una mostra allestita sul territorio, in diversi musei e luoghi espositivi (che ai musei si riallacciano), che in un sottile gioco di rimando l’uno con l’altro – come tessendo una ragnatela – raccontano e sviluppano con linguaggi diversi, per analogie e contrasti, il tema della mostra.

Il Museo Civico delle Cappuccine a Bagnacavallo esprime mirabilmente l’identità locale attraverso le collezioni della pinacoteca storica e della sezione di arte moderna e contemporanea, che coprono un arco temporale lungo sei secoli, e la vivace sezione delle mostre temporanee.

L’esposizione permanente di una singolare e notevole raccolta di targhe devozionali in ceramica e la ricorrente realizzazione di mostre tematiche rappresentano le due anime del Museo Civico San Rocco di Fusignano, ospitato in un ex-ospedale accuratamente riallestito.

Nato per documentare l’attacco alla Linea Gotica, il Museo della Battaglia del Senio ad Alfonsine è un museo del territorio romagnolo durante la seconda guerra mondiale, che sottolinea l’intreccio dei fatti militari con la storia della popolazione civile affacciata sulle sponde del Senio.

Il Museo Civico Luigi Varoli a Cotignola si articola in più sedi, le cui collezioni rispecchiano la poliedrica personalità dell’artista cotignolese. Palazzo Sforza ospita le sue opere di pittura e scultura, mentre Casa Varoli conserva le sue memorie e le sue multiformi raccolte legate alla storia locale.

L’altrettanto eclettica raccolta antiquaria del medico e diplomatico Venturini è al centro del Museo Civico Carlo Venturini a Massa Lombarda: raccolte librarie, archeologiche, artistiche e naturalistiche si mescolano a oggetti curiosi in un’atmosfera da wunderkammer.

Infine il Museo Francesco Baracca a Lugo, che è idealmente presente grazie alla figura dell’eroe della prima guerra mondiale. L’allestimento racconta la vita del noto aviatore e ne offre un’immagine calata nel contesto storico e sociale del suo tempo.

Sei musei, frantumi identitari del territorio d’appartenenza capaci di restituire una visione d’insieme, che insieme ad altri trentaquattro fanno parte della rete museale a cui quindici anni fa ha dato vita la Provincia di Ravenna.

In Italia, dove esistono più di cinquemila musei, molto vicini tra loro e per lo più di ridotte dimensioni, la costituzione di reti museali rappresenta uno strumento essenziale a beneficio segnatamente dei musei più piccoli. Tale prospettiva è particolarmente significativa in una realtà come quella ravennate, che conta oltre cinquanta musei, disseminati dalla costa alla collina, dalle città d’arte alla pianura, caratterizzati da un’ampia varietà di collezioni e dalle medio-piccole dimensioni. Il Sistema Museale Provinciale è nato nel 1997 proprio con l’intento di valorizzare questo ricco, differenziato e frammentato patrimonio. È una rete territoriale che coordina e stimola il ‘gioco di squadra’: suo elemento caratterizzante è il Comitato Scientifico, attore fondamentale per lo scambio di informazioni, occasioni di confronto, e per programmare attività, con l’obiettivo di diffondere gli standard di qualità. Perché la conoscenza è il fine da perseguire, anche in tempi bui.

giovedì 8 novembre 2012

Cuori così bianchi.

Un immaginario dialogo tra Javier Marías e sua figlia.

di Elettra Stamboulis


- Hai finito?
- In che senso, ho finito? Intendi se ho finito di scrivere?
- Sì, vedo che guardi la pagina bianca.
- È così. Ho scritto la parola fine. Ma non so se questo significa finire. Perché sempre si può ricominciare. Decidere un nuovo inizio.
- Certo. Anche io a volte decido di cominciare un gioco nuovo. Comunque lo decido. Allora, hai deciso di finire?
- Credo di sì. Vedere la pagina bianca mi fa pensare alla fine. Che non ho più niente da aggiungere.
- È strano, tu dici sempre che la pagina bianca è un inizio, è la possibilità, non la fine. Oggi mi dici il contrario.
- A volte anche il contrario può essere vero.
- Papà, mi confondi. Il contrario non può essere vero. Solo ci possono essere due verità in una cosa che appaiono contrarie. Anche in alcune storie è così.
- Hai ragione, non mi sono espresso bene. Ci sono entrambe le cose, che non sono verità, in una pagina bianca. L’inizio e la fine. Solo quando mettiamo un segno, o non lo mettiamo, decidiamo in che parte della cosa vogliamo stare. A te piace più finire o iniziare?
- A me piace iniziare, quando il gioco finisce è sempre un po’ triste. Lasci qualcuno o qualcosa. C’è un abbandono.
- Però puoi sempre iniziare qualcosa di nuovo. E quindi c’è sempre anche la possibilità di un nuovo inizio. Come in questa pagina bianca. Potrei ricominciare a scrivere adesso, e dopo aver scritto Un cuore così bianco, scrivere un altro romanzo oppure disegnare oppure tenere un diario. Oppure stare a parlare con te...
- Parlare con me è sempre meglio, è meno rischioso e più divertente. Anche se a volte mi sembra che preferiresti continuare a guardare la tua pagina bianca... Di cosa parla il tuo libro?
- Credo che parli del segreto e della sua possibile convenienza, della persuasione e dell’istigazione, del matrimonio, della responsabilità di chi ha saputo, della possibilità di sapere e dell’impossibilità d’ignorare, del sospetto, del parlare e del tacere.
- È come la pagina bianca, insomma. Ci sono sempre due cose. Parlare e tacere, sapere e ignorare. Voi adulti mi confondete. Sembra che non ci siano mai confini tra le cose. Capisco l’inizio e la fine, ma sapere e ignorare. Sono proprio due cose diverse.
- Forse invece è proprio così in tutte le cose. Coesistono due cose diverse. Anche tu sei il risultato di due cose diverse, il papà e la mamma.
- Uhm, però io sono io. E sono anche un po’ la nonna. E papà, se ci sono sempre almeno due cose, come si fa a decidere? Perché tu scrivi oppure smetti, oppure disegni?
- Difficile rispondere. Tu perché decidi di giocare oppure di smettere?
- Io smetto quando mi annoio. Quando sento che ho finito con quel gioco lì, non c’è più niente che possa succedere.
- Allora sappiamo quando si smette. E quando si decide di iniziare?
- Io voglio sempre giocare. Quello non smette mai. Inizio quando trovo il modo di farlo.
- Anche io vorrei sempre iniziare. Ma a volte non c’è il modo. Non c’è il modo di trovare il capo e la coda, oppure si è semplicemente bianchi dentro per un po’.
- Anche tu hai il cuore bianco allora? Come nel tuo libro...
- «Le mie mani sono come le tue, ma ho vergogna di avere un cuore così bianco». Lo dice Lady Macbeth al marito che ha appena ucciso un uomo. Bisogna non essere contagiati dalle colpe degli altri, non conoscere né l’inizio né la fine della colpa.
- È come far finta di niente?
- Non si può far finta di niente. Nel momento in cui il segreto è svelato noi diventiamo parte della colpa, dobbiamo decidere come andare avanti nella pagina bianca. Anche lasciarla bianca è un gesto. Anche non fare gesti.
- Capisco. Io allora ho il cuore bianco perché sono bambina?
- Alcuni dicevano di sì. Il bambino è una tavola bianca: ma quando? Non mi pare possibile trovare un momento così bianco. Tu sei il risultato di scelte o caso, che non sai. Nessuno di noi sa esattamente da dove viene. Non scegliamo il nostro nome e siamo già alla nascita una pagina su cui è stato scritto da altri.
- Allora ho deciso. Non ho il cuore bianco, ma lo vorrei con tutti fiorellini. Me lo puoi fare?
- Ci provo.

mercoledì 7 novembre 2012

Il bianco può accecare.  Adrian Piper e Kara Walker

di Serena Simoni



Per quanto la questione della razza sia un falso problema dal punto di vista scientifico - data l'impossibilità di individuare categorie di esseri umani sulla base del patrimonio biologico e genetico - rimane chiaro che elementi rilevabili come il colore della pelle e i tratti fisionomici, o gli usi e i costumi diversi, hanno alimentato e ancor oggi nutrono abbondantemente pratiche di razzismo e di discriminazione. Essere bianchi o neri - per quanto sembrino concetti superati nel mondo dell'arte e della cultura - rimangono invece alla base di solide costruzioni sociali anche in un paese di recentissima immigrazione come quello italiano, dove il tema del razzismo e, al contrario, dell'opposizione ad esso, si poggiano su tematiche inerenti alla religione e alla nazionalità, epurando una serie di altri aspetti non meno importanti.

Il tema del razzismo è stato centrale nella riflessione di numerosi artisti statunitensi fin dagli anni '70, nel momento più internazionale dei movimenti dei diritti civili e della liberazione sociale. E' stato ad esempio affrontato da un'artista come Adrian Piper (New York 1948), che ha cominciato ad interessarsi fin dalla metà di questo decennio a questioni inerenti all'identità, alla razza e al genere, affrontati tramite opere prevalentemente concettuali, video e azioni. Nel 1973 Piper realizza Mythic Being, prima analisi dei processi di costruzione delle differenze razziali e di genere: appartiene a questa serie di lavori - alla cui base sta una complessa e progressiva spoliazione delle caratteristiche soggettive - una performance in cui l'artista recita un mantra tratto da una frase dei propri diari, mentre gira per le strade vestita da young black con pantaloni, occhiali scuri, parrucca afro e baffi, secondo gli stereotipi usuali. Confronto, alienazione, accettazione e differenza sono motivi esaminati sia come fenomeni sociali, che meccanismi interni alla stessa persona.

Abituata a pensare che il personale è anche politico, nel 1981 Piper - mediando la percezione di sè con quella restituita dagli altri - disegna degli autoritratti in cui esagera visibilmente gli elementi fisiognomici che appartengono allo sterotipo della razza nera, mentre in un'azione reiterata fra il 1986 e il '90 - My Calling (Cards) -, distribuisce dei biglietti da visita con osservazioni esplicite sul razzismo praticato da persone che incontra - responsabili di battute, commenti o affermazioni razziste - mettendoli a disposizione anche ad altre possibili vittime. Suscitare reazioni nel pubblico è l'effetto di molti dei suoi lavori: in Cornered - installazione del 1988 - Piper sfrutta la chiarezza della propria pelle per presentarsi su uno schermo mentre afferma di "essere nera", un'asserzione contestata dall'apparenza, ma messa in dubbio anche dall'esposizione di due certificati di nascita del padre dell'artista, in cui si afferma, in uno, la sua appartenenza alla razza bianca, nell'altro, a quella nera. Il tema dell'appartenenza alla razza e la percezione dell'altro sono obiettivi prioritari.

Rispetto a Piper, Kara Walker (1969) affronta tematiche non distanti, ma con tecniche e argomentazioni diverse. Nella varietà di impiego dei media, sono più famose le sue lanterne magiche e installazioni di silhouette di carta tagliata che l'artista ha cominciato ad utilizzare dall'inizio degli anni '90. La scelta della tecnica non è ininfluente: importata negli Stati Uniti nel corso del '700, ha molto successo fra le classi aristocratiche e l'alta borghesia, dove diventa nel tempo una forma artigianale praticata negli insegnamenti riservati alle signore della middle class. Il legame della tecnica alla ritrattistica, la semplificazione necessaria dei lineamenti fisiognomici, così come la riduzione al bianco dello sfondo e al nero delle forme (o viceversa), sono elementi che ricordano il riduzionismo su cui si basano gli stereotipi razziali.

Whiteness e blackness sono i due termini che si confrontano nel lavoro di Walker, poco interessata a trattare l'appartenenza razziale in modo autoreferenziale. Quello che la muove è l'analisi delle relazioni fra bianchi e neri dal punto di vista storico, emozionale, fisico, sessuale, razziale, in particolare quando e dove si manifestano dinamiche di potere. Ambientate generalmente nel Sud degli States prima della guerra civile, le sue scenette mettono in mostra una meta-storia, frutto della contaminazione fra realtà, letteratura, finzione e fantasia. Il procedimento ibrido è scelto perchè del tutto simile alla costruzione della memoria storica e delle identità razziali.

Violenza e soprusi sono mescolati ad una vena ironica, dagli accenti talvolta sarcastici, ma l'inquietante che travolge lo spettatore è la relazione di dominio sessuale e di bestialità che ricade su bambine, bambini e donne di colore. Sessualità mescolata a violenza e humour non rendono comunque facilmente accettabili le opere, che mettono sul piano pubblico ancora dei veri e propri tabù, ovvero quel complesso di desideri e piacere - nel ventaglio più ampio delle componenti che arrivano alla pura devianza - collegato alla storia della schiavitù dei neri.

Tutti le associazioni più triviali e cattive in relazione alla blackness emergono nel lavoro, esposte senza pudore. Walker non cerca stigmatizzazioni morali dei comportamenti, ma una presa di consapevolezza del rimosso, una sana e rivalutabile vergogna, magari "per aver semplicemente creduto nel progetto del modernismo".

I contesti delle produzioni di Piper e Walker vanno ben oltre al mondo dell'arte: durante gli anni '70, molte attiviste nere fuoriuscirono dai movimenti dei diritti civili e del Black Nationalism perchè al loro interno permanevano atteggiamenti di forte misoginia e non c'era modo di discutere i nessi inestricabili fra patriarcato, razzismo e sessismo, che - per prime - queste intellettuali indagavano. Genere e razza sono da sempre meccanismi reciprocamente costitutivi, in grado di costruire modelli sociali gerarchici dove il primo posto è riservato agli uomini bianchi (purchè etero e occidentali), il secondo alle donne bianche, poi ai neri e - in ultimo - alle donne nere.

Emarginate, le teoriche del Black Feminism provarono negli stessi anni a trovare spazio nei movimenti delle donne, senza trovare molta ospitalità: il tema della razza, così come quello della classe sociale, per loro elementi fondamentali di riflessione, venivano espunti dagli obiettivi principali della riflessione: l'essere bianche o nere, ricche o povere, erano percepiti come fattori secondari rispetto alla differenza prioritaria fra donne e uomini.

Mutuando il concetto di invisibilità a se stessi utilizzato nei Men's Studies a proposito di un modello maschile che rende l'omologazione degli uomini ad esso - tramite la cancellazione di tutto ciò che si distanzia, insieme alle soggettività e ad alcune parti vitali dell'individuo - il colore bianco della pelle assurgeva a categoria femminile neutra e onnicomprensiva, in grado di cancellare differenze sostanziali e discriminanti, anche all'interno delle riflessioni "bianche" più radicali. Questo almeno fino alla seconda metà degli anni '80: da allora in poi, grazie anche all'apporto aggiuntivo di riflessioni da parte di altre femministe di cui molte non occidentali, le inter-relazioni fra sessismo e razzismo sono diventate centrali nell'analisi della costruzioni dei generi, così come hanno dato un contributo fondamentale all'analisi del concetto generale e storico di alterità, in generale come all'interno della sola comunità maschile.



Bibliografia:

Guido Barbujani, L'invenzione delle razze. Capire la biodiversità umana, Milano 2006

Guido Barbujani, Sono razzista ma sto cercando di smettere, Roma 2010

Sandro Bellassai, L'invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell'Italia contemporanea, Roma 2011

Uta Grosenick, Women Artists, Köln 2002

bell hooks, We Real Cool. Black Man and Masculinity, New York 2004

bell hooks, Elogio del margine. Razza, sesso e mercato culturale, Milano 1998

Lisa Gabrielle Mark (a cura), WACK! Art and the Feminist Revolution, Cambridge-London 2007

Annamaria Rivera, La bella, la bestia e l'umano. Sessismo e razzismo senza escludere lo specismo, Roma 2010

Annamaria Rivera, Estranei e nemici: discriminazione e violenza razzista in Italia, Roma 2003

Serena Simoni, Anni Ottanta e Novanta: il corpo nell'arte contemporanea, in L. Gambi, M.P. Patuelli, S. Simoni, C. Spaolonzi, Partire dal corpo, Roma 2010




Sitografia:


learn.walkerart.org/karawalker

adrianpiper.com

I modi esausti e potenti del candore nel giardino del mondo

di Ranieri Frattarolo


Se la luce che concede il dono della vista ne sbianca a un tempo referenze, segni e colori, non ci salveranno la spuma di candidi lavacri né gli aloni di un nuovo miraggio, immersi nell’incessante rito lustrale e nell’imperativo impulso del riscatto: nel naufragio, all’approdo, ciò che accende di vita nel bianco alla fine spegne nel nero o ricandida…

Ulisse è sulla spiaggia, svenuto, rotolato dall’impeto delle ultime onde, ma salvo. E’ bianco dello spolvero di una sabbia dalla grana fine. E’ bianco della salsedine del mare che ancora lo avvolge e della carezza infranta e leggera di una spuma vergine, subito perduta e rinnovata dai conati sofferti della risacca, che sembrano respirare per lui. La battigia lo battezza a un’ennesima rinascita e lo biancheggia per ultima, vincendo sul biancore accecante della luce e sull’invadenza nivea delle nuvole basse, sul calcare eroso di rocce affioranti e sui sentieri sfarinati di conchiglie e ossi di seppia, che conducono, inconsapevoli come una scia, ai candori disseccati delle ramaglie degli alberi del mare e a un balenio di gabbiani litigiosi, che alzano indispettiti i loro biancori alati fra acute strida. In alto, nella lontananza delle dune, una fuga di coste eburnee: capovolte e immacolate vestigia di un cavallo possente, risuonano come canneti di palude filtrando il vento. Il figlio del dio che ha offeso, gli ha concesso il dono e il privilegio del viaggio e lo incanta ora con la voce profonda del suo galoppo scalciante, accompagnando lo schiocco dei flutti in ritirata dalla rena e dalla sua anima e l’ebbrezza e la delusione dell’arrivo…

La grande cetra è di un bianco più pallido e permanente della sabbia venata dal giallo solare, e risuona di solitudini veloci, dalle sonorità cupe come l’eco delle conchiglie vuote, agili a percorrere in un baleno l’incanto silenzioso del mondo e l’anima dell’eroe. L’essenza di quel corpo ne è trafitta nell’inconscio, contaminato da ogni colore, ma che ora risuona nel bianco di quelle verità, in quel bianco di vita e di morte, di paura e calcinazione, in una bava d’azzurro verde che schiuma nuda di riflessi su di una spiaggia sbiancata. Non possiamo comprendere l’antico: il passaggio della soglia dell’Averno aveva il colore del bianco ipogeo delle ossa o quello di bende eterne e non il bianco delle ali dei gabbiani o quello delle nuvole del cielo e la clessidra di sabbia bianca , attraverso l’omphalos di vetro stretto del destino, indicava non il tempo, ma i suoi rovesci e le quantità di cielo e terra che mescolate si concedevano alla vita. Non possiamo comprendere la vita degli antichi, perché essa è ora il nostro sogno, un sogno bianco e distaccato di statue candide e solenni, di visioni divine ancora accese di splendore, come ceneri ai margini del pulsare di un fuoco muto e senza crepitii, che lambisce inudibile spazi ormai fantasticati. Oggi un bianco biblico ha smesso di rivestire il panteismo degli elementi e di espanderci tra gli dei, ma ci sospende ancora su cosmogonie dell’anima, scenari privati e particolari in cui risorgiamo, recuperati dai ricordi degli antichi paesaggi del mito e ricostruiti con il luminismo punteggiato delle figure di pietra bianca presenti lungo le grevi teorie di siepi dei giardini, che sembra risuonare di una melodia discreta di albe nuove e personali, sullo sfondo del basso continuo di una notte di verdi cupi. Nella Genesi, sul nero dell’abisso, il bianco nasce e s’illumina scenograficamente della leggerezza dell’occhio divino, galleggiando evanescente per poi trasformarsi nello sfondo diurno della creazione, diffondendo il giorno e partecipando proteiforme ai suoi mille profili. Divenuto la luce visibile di Dio, il bianco recita ancora oggi il suo ruolo di sfondo di dimensioni terrene e ultraterrene e di punto di partenza spaziale e di arrivo temporale in occhi neonatali e in quelli dei defunti, in qualità di psicopompo dell’anima, e non occupa più i nostri spazi psichici e la natura essenziale delle cose, ma semplicemente li circonda, come il bianco degli occhi cinge l’iride. Il bianco tende a rinforzare tale ruolo, nell’inconscio collettivo contemporaneo, con le quinte bianche appartenenti alla fenomenologia degli oggetti e delle sostanze comuni, caricandosi del potere della cancellazione dei suoi contaminanti e dell’abrasione del mondo cromatico di superficie, cioè del potere di affermazione, con lo scolorimento, di ciò che rimane quando tutto il resto scompare. Il bianco della carta sbiancata ben rappresenta questo potere, nutrendo programmi, desideri, analisi e memoria della nostra formazione e aprendosi come un vero libro bianco sui cicli esistenziali della vita. Il bianco del mito affiora ancora nei manufatti umani di argilla chiara, nel legno, nel sasso, nelle ossa, dove insiste indisturbato con uno straordinario livello di sopravvivenza cromatica, insito nel suo essere non rivelazione, ma manifestazione divina dell’essenza stessa delle cose. Gli altri colori emergono tragici, impercettibili e stremati attraverso lo sterrato dell’archeologo o spuntano, in modi più magici e meno volgari, meno ipotetici e sottratti, attraverso gli amorevoli livellamenti delle buche d’impianto del giardiniere. Non scoperti nella terra, ma scoperti dalla terra e indotti da essa a librarsi liberamente nella luce e nelle forme vegetali, affiorando nel tessuto di gemme, petali, bacche e pomi, cortecce e amenti che li declinano sobriamente o in maniera accesa, rinforzandone le tonalità pastello nelle velature dell’ombra o esponendoli senza pentimenti allo schiarimento del fulgore diretto del pieno sole. I colori così esposti sbiadiscono spesso inevitabilmente, partecipando del fluire del tempo nel segno biblico della luce e tornando allo sfondo di un biancore originario quando tendono a perdere l’identità cromatica, perché il bianco è come il genere femminile della sessualità, una sorta di tinta base cui si aggiungono tutte le altre con vari riti d’iniziazione. In giardino i colori si conservano tenacemente nel loro pigmento solo con una forte volontà maschile di separazione e di proiezione e attraverso un corredo materiale di vari spessori e differenti incarnati di fibre vegetali, che assorbe i raggi o li riflette su sensibili e impercettibili inclinazioni, con varie dimensioni, densità di affollamenti ed estensioni di foglie e petali sui rami. I colori della tessitura vegetale si effondono così, con sorprendenti alternative di opacità e trasparenze, su retinature filigranate che ne articolano, all’interno delle partizioni dei tessuti, la successione di sfumature. Solo nelle faglie e nelle vene della roccia l’invaiatura dello spettro cromatico si conserva inalterata nel proprio variegato sorriso di luce, ma in giardino non sempre i colori recedono affievolendosi sul bianco. Spesso assumono l’aspetto naturale di candori espliciti e diretti, mitici, profumati e pronubi più delle altre tinte, in habitat dove circondati di oscurità ne vengono a loro volta segnalati, magari macchiati, appartenendo a radici che la terra ha inghiottito, similmente alle materie spatinate, spellate, raschiate, restituite dagli scavi stratigrafici. Quest’ultime, con quell’aria esausta e svincolata, inaridita o intrisa, debole della fragilità della polvere, difendono tenacemente e in misura tanto più energica, vigorosa e paradossale il loro laconico mistero, negli stessi modi con cui funghi, penicelline e batteri, tramano anch’essi in bianchezza un’ardita conciliazione tra la potenza e il disfacimento del mondo. Avviene però anche il contrario e il biancore dei boccioli di molte rose e d’infinite fioriture di bulbose, manifestato inizialmente con pallori virginali, si scompone spudorato in piena apertura di corolle attraverso umori biochimici e d’incrocio genetico che si tingono di porpora e violetto, d’azzurro e d’ogni variante del giallo e dell’oro o si contamina di sentori cromatici appena avvertibili, che affiorano in un impercettibile alito al di sotto del viraggio leggibile della velatura. Sempre il bianco dissipa l’incertezza cromatica di petali e pistilli, quando non sanno esattamente come tingersi, striandoli e puntinandoli di aloni o strisciandoli di lattici gocciolanti e densi, e con lo stesso colore delle creature che attraversano il confine tra il reale e l’immaginario, si libra in inconsistenze soffici di ciglia, barbe, filamenti e capsule cipriate di semi nel vento o ingrassa sotterra in tuberi e bulbi e s’infiltra, in magiche simbiosi, nella fitta rete della penetrazione apicale, sulla punta delle radici più curiose e intraprendenti. La natura del bianco è a un tempo colore, spazio-superficie, luce e spettro cromatico ed è contigua ai concetti di trasparenza, opacità, cancellazione, argento, luminosità, giallo e chiarore, con cui si confonde e da cui si distingue. Nella nebbia dello sfumato paesaggistico o leonardesco la qualità del bianco comprende in maniera singolare sia i valori effusivi, biblici, della modernità, sia quelli intensivi e immanenti, panteistici, della classicità: corrispondente visibile sul piano tonale dell’animo umano, il bianco “alla maniera del fumo” ne rivela i trapassi continui dell’essere, la varietà e variabilità delle sue qualità generalmente impermanenti. Essendo d’altronde il bianco e il nero non solamente colori ma spazio, il bianco sfumato e gradualmente amalgamato ai trapassi di nero e di grigio, riesce a trasfondere le dimensioni spaziali del buio e della luce l’una nell’altra e cioè la superficie della luce sopra e dentro i volumi abissali insiti nel buio e rivelatori della metafisica del mondo oscuro. La foschia chiaroscurale nutrendosi del simbolismo profondo della psicologia dell’inconscio è in grado di fondere, attraverso i valori spaziali della luce bianca e del buio, la struttura dei mille antichi fuochi divini della psiche individuale nell’abbaglio effusivo e universale dell’unico Dio della modernità. E’ per questa ragione che nei grandi giardini le caligini e le brume proprie del paesaggio atmosferico cangiante, favorite dal disegno di opportune architetture vegetali e riprodotte in maniera non arbitraria, segnano i percorsi e gli scorci prospettici della pregnanza di ombre e velature originariamente metafisiche. E’ il matrimonio mistico dell’animo umano con l’anima della natura, la fusione creativa della Genesi nello spirito d’Arcadia, che s’imprime col vento, con le carezze delle piante e i suoni e gli odori, nel tatto, nell’olfatto e nell’udito dell’uomo, in modi solo parzialmente trasmissibili alle altre arti con tale orchestrazione d’intensità. Agli antipodi del morbido digradare di questi bianchi passaggi appare la luce calda e soffusa del tramonto solare, macchiata da contorni d’oscurità netti e bassi e quella del bianco dei pleniluni nevosi, dai chiarori contrastati da laghi d’ombra ricchi di sfondi più profondi. Entrambi ci portano agevolmente dal sole alla luna e dalla spiaggia del mito odisseo a un mito spiaggiato nella banalità interpretativa dell’imitazione di massa e offerto in sacrificio d’ostensione ai volenterosi epigoni sui manuali d’orticoltura: il giardino bianco di Sissinghurst Castle, creato dai rigori poetici di Vita Sackville-West in una gelida notte d’inverno… bianca di luna e di neve. Siamo sempre pronti a parlare di colori, ma troppo schivi a viverli e il bianco per noi s’immedesima, in taluni irripetibili istanti, con qualcosa che c’irretisce per sempre, in una concentrazione magica della bellezza e del significato del tempo della vita. E’ quanto accadde alla poetessa in stivaloni e insigne baffuta giardiniera inglese che coniugò altrettanto bene botanica, colorismo e architettura verde tra ‘800 e ‘900. Il progetto del giardino bianco in realtà nacque all’insegna del grigioblu e del bianco e si giocò in direzioni che richiesero cultura visiva, esperienza di pratiche orticole e sensibilità educata da vastità di letture: una sapiente analisi strutturale in spazi quadrati della morfologia floreale dei rampicanti bianchi, allevati su pergole della stessa forma di quelle compartimentazioni e sposati a un tripudio di argenti cinerei e di fioriture terricole più o meno immacolate o bluastre di bulbose e perenni. La gentildonna alternò sulle pergole, fioriture differenziate per dimensioni e sfumature di bianco, per grandezza di corolle e tipo di fogliame, calibrando esemplari a offerta variata di portamento e inclinazione di foglie e fiori. Diversità di “pieni” vegetali di corolle e di verde e di “scansioni vuote” di luce e d’aria componevano la trama minuta di queste composizioni, trapuntando coperture dagli adombramenti minimi, ma differenziati e plastici. Studi cromatici rigorosi selezionarono strati di fioriture simultanee o cronologicamente successive che sprigionando spontanee associazioni di profumi e aromi offrivano colori studiati e selezionati per risplendere nella riflessa luce lunare o in quella serale, e non nei raggi del giorno. Studiando l’altezza delle palificazioni d ei pergolati, rispetto al rigoglio delle piante argentate e a foglia grigia situate nelle aiuole a livello del suolo, Vita Sackville-West giocò con gli effetti della lontananza sulla percezione del colore, distinguendo le due diverse modalità dello sguardo rivolto a terra e rivolto verso l’alto e operando con il primo sulla vicinanza, analiticamente come uno zoom, sui contorni unici di ogni singolo fiore e con il secondo sulla distanza, sinteticamente come un grandangolo, garantendo la fusione cromatica dell’indistinto. Il risultato fu il contrasto spettacolare tra lo sfumato della macchia pittorica delle coperture in alto e la visione scandita di un colore discreto, perché separato all’interno di ogni corolla, nelle aiuole in basso: due vedute che corrispondendosi in armonia cromatica, rimandavano meravigliosamente l’una all’altra. La delineazione di contorni più nitidi e ravvicinati nelle piantate a terra conservava però pur sempre un effetto di massa latente: nei quadrati di spettanza, il “vuoto” collettivo di svettanti spighe, pannocchie, corimbi e ombrelle, colti nell’insieme, si contrapponeva incisivamente, come superficie di terra, al “pieno” degli aerei volumi coperti di verde e fioriture delle pergole, declinando su scala maggiore e su due piani differenti in alto e in basso, il gioco dei vuoti e dei pieni minimale e complanare, di aria, foglie e petali, presente nelle strutture rampicanti delle tettoie fiorite. Spalliere da muro completavano lo scenario, in alcuni punti, integrando la loro verticalità con i piani orizzontali, sfalsati, dei fiori della terra e dell’aria. Nonostante l’esaltazione dell’ingegno creativo profuso nel progetto, lo sguardo profondo della sua articolazione, improntato alla luna e alla sua luce o a quella del suo annuncio crepuscolare, non viene mai eccessivamente spiegato e solo raramente menzionato. La luna generalmente risplende su contorni deboli, affievoliti dall’ombra. Le sagome che risultano da tale adombramento sono sottratte alla cancellazione del buio, ma accorpate con effetti di massa nei chiari di luce riflessa lunare, rivelando effetti unificanti di biancore analoghi a quelli dell’omogeneità nevosa. Lo sfondo nero del firmamento stellato rinforza il biancore dei fiori ricadenti e sospesi e l’argentatura bluastra delle foglie da aiuola, arricchendoli delle trasparenze del plenilunio nella penombra di un’oscurità analoga al crepuscolo solare. Perfino il ritaglio di sentieri e corridoi, in uno spazio non grande e chiuso da una siepe e da un muro, risente dell’espansione brillante della ghiaia chiara nei lumi della notte. Un risultato complicato, realizzato da Vita Sackville-West con modestia pionieristica all’interno di una tradizione inglese che già conosceva l’applicazione dei principi della pittura di paesaggio alla composizione dei giardini e che faceva ripetere a Gertrude Jekyll “se un brutto fiore ha quel punto di bianco si richiede ugualmente nella bordura, perché non è mai veramente inutile e neppure brutto”. Il giardino bianco immaginato o sognato a occhi aperti nel candore notturno dell’inverno e suscitato dagli effetti del magico irradiamento della luna sulle bianche coltri è spontaneamente evocatore dello spazio nevoso: uno spazio misterioso, denso e carico di significati, che cela come l’ombra l’invisibile, suggerendo una seconda fuggevole dimensione della realtà che sarà bene indagare. Un duplice manto di luce e di buio, un manto di sepoltura, lega la neve all’ombra e riconduce alle alterità dell’oltretomba e del sonno letargico della natura dormiente, ma non solo. Altre ragioni rinsaldano quest’identificazione, quali per esempio il suo stesso ciclo vitale. Bianca è la morte, bianco il sudario e bianco il fantasma: tuttavia posandosi e rinascendo al suolo la neve vive, inalando e traspirando l’aria da cui è venuta nei respiri delle sue porosità, e infine muore, esalando il suo spirito in un gelido e rigido rigor mortis di ghiaccio, sempre più annacquato e liquido, quando decide di sciogliersi come un cadavere. Mistico emblema delle nozze fra cielo e terra, la neve realizza una fenomenologia d’inversione cromatica dell’alto e del basso, con la terra che sublimata dal cielo si trasforma da nera in bianca e stupisce ancora per la complessità del suo meccanismo simbolico. Come cristallo di ghiaccio, serba l’essenza dell’acqua che custodisce, ma cadendo dall’alto e sedimentando i suoi strati assume l’aspetto e la funzione intima, l’abbiamo appena detto, di terra e di cielo capovolto, le cui nuvole diventano scintillio di suolo. Il bianco nevoso guadagna così le dimensioni dell’aria, della terra e dell’acqua e per lo splendore radiante e riflesso della sua luce, quella del fuoco. Possedendo copiosamente i quattro elementi classici della cosmogonia, questo bianco è un vero e proprio universo totalizzante, calato in un paesaggio di lentezza e di vuoto che si presenta appena creato, poco nitido e insieme purificatore e fecondo, accecante e opaco, di un effimero che scaccia contorni, orizzonti, confini. Se la luce ariosa è il verbo parlante di Dio, la neve è il suo silenzio terrestre, lunare e riflesso, rievocatore di una vibrazione bianca in un tempo sacro di creazione. Tuttavia questo mondo generato ed emerso dalle acque si sospende e stalla nel gelo solido e luminescente di laghi rovesciati fatti di neve, i cui riempimenti non premono all’ingiù, in bacini o in cavità carsiche, ma si affardellano all’insù, sui loro piani riproiettati al contrario, dove accumulando si difendono e dissetano la terra senza sommergerla. Le profonde concavità liquide si trasformano in dossi e gonfiori schiettamente superficiali e terrestri e la pioggia, in addensamenti su pietre e rami, dove attecchisce una luce bianca che non cala dall’alto, ma è anch’essa soggetta a inversione, perché s’illumina sempre più nello sprofondare del sottosuolo nevoso , come le fosforescenze degli abissi marini. E’ vera luce del giorno, più abbagliante del pallido chiarore di un’aria che si perde in foschia. E’ luce che acquista al tramonto valori gessosi. Come il gesso sulla lavagna, la neve nella notte non si limita a patinare l’oscurità, ma vi entra con un chiarore che s’illumina di mondi, sposando grafismo e luminismo, perfino nel buio più totale. Di giorno, le masse della nevicata invadono la vista e agiscono come un immenso occhio bianco su di essa, ferendola e disorientandone la focalità. La neve riesce a introdurre di sbieco i candori della distanza nella messa a fuoco ravvicinata di ciò che si sta guardando da presso. Lontananza e vicinanza si fondono di un bianco uguale che entra comunque nell’occhio, risucchiando l’intera massa nevosa del paesaggio. L’osservazione di un qualcosa, diventa l’osservazione del tutto, ma lo scenario finale non si modifica significativamente, nonostante la connessione tra particolare e generale, tra vicino e lontano. Lo spazio nevoso è soggetto ai contrasti di una doppia deriva ottica, d’ingrandimento estensivo e di riduzione concentrata dello spazio, entrambe dovute all’effetto di alterazione della profondità di campo da parte del bianco. La prima, consiste nell’omogeneità di una campitura nivea che amplia un paesaggio mancante delle partiture cromatiche orizzontali, cancellate, e di quelle ondulatorie verticali, ammorbidite, la seconda, di segno opposto, che contrae lo spazio, grazie ai tagli operati da uno sguardo che letteralmente coglie alfa e omega, scivolando sul brillio nevoso. Il collegamento al volo di punti d’innevamento anonimi e anche distanti, non impegna l’occhio nelle pause d’individuazione dei cromotopi, ossia dei luoghi / colore che contrassegnano la composizione di un paesaggio non ammantato, ma sepolto e ormai invisibile. Siamo dunque privi dell’identificazione della distanza percorsa dalla nostra visione e dell’intuizione del tempo necessario a coprirla attraverso un reale trasferimento fisico. Slittiamo su di uno spazio corto e breve, dominatori di multiple e virtuali bilocazioni, come i santi o come le ombre che ritornano… per evidenziare nuovi punti di contatto con la neve. L’annullamento delle distanze, l’inglobamento oculare del generale nel particolare, lo sfalsamento dei piani del suolo, il congelamento sonoro, l’impedimento del movimento, l’ossificazione psichica d’impressioni permanenti ed essenziali in attimi di un’acutezza che non scorre in flussi di pensieri ed emozioni, ma diventa imprinting, la cancellazione della pelle antropica del paesaggio, sono i segni di una nostra morte rituale durante l’inverno e della cecità del bianco, che si esprime nel segno della massima luce, annegando i colori e fondendoli nell’abbacinante istante di un tempo sospeso. E mentre il giardino torna a essere neve e in quanto neve, paesaggio, gli spazi domestici, non più tetto, rimessa, legnaia, sono anch’essi parte della glaciazione di un universo nuovo e più antico, che avvolge i luoghi, e divengono partecipi della sua essenza in una metamorfosi di sottrazione e rinnovamento. L’epifania archeologica della neve cancella, appena fuori casa, la soglia di proiezione del nostro io verso l’esterno del mondo, mutando ogni cosa in detriti e vestigia sepolte, che una volta ci appartennero e in cui ci riconoscemmo. Siamo così avulsi e immedesimati in questa perdita da essere doppiamente spiriti in pena, accompagnando al disappunto l’osservazione emotiva di passi tracciati come una semina di tanti “dov’ero”, istantaneamente sprofondati, allargati e segnati dall’oscurità dei calchi geologici, in un candore che ormai è efflorescenza salina di una pietrificazione millenaria. Giunti a questo punto, vaghiamo turbati all’intorno, consapevoli di essere inconsistenti fantasmi colti da una morte antica che ci colse improvvisa e che rifiutammo. Vorremmo gridare, per l’estinzione di massa del nostro piccolo mondo di affetti precipitati in un altro mondo, ma suoni attutiti come un sussurro, crocchianti e secchi, simili a scoppi di bolle, sottolineano un silenzio di tomba che ci ghiaccia e ci conforta insieme. Pervasi dalla luminescenza di quel bianco, lo sappiamo ora spirito del luogo, custode dei segreti auspici di antichi segni d’ombra, di allineamenti d’astri e del verso orientante dei venti.


L’infinito sul bordo di una tazza

di Eleonora Frattarolo


In una Natura morta del 1957 (1) un’ampolla, una bottiglia a sezione quadrata e una tazza da latte sono le piccole cose che nella pia adesione all’immanenza della vita disvelano la vertigine di un intervallo sacro dove Giorgio Morandi, il loro autore, evoca in un sussurro il tempo e lo spazio di un ricordo e di un sogno. Uno sguardo turbato, un pennello errante accarezza i confini incerti e asimmetrici di queste forme accampate su di uno sfondo di grigi smossi magri e lisi. Una lingua soffice rosa aranciata tra le due bottiglie è il frammezzo che incardina la magnifica monotonia dei chiarori di bianchi appena rappresi come veli di nebbie. Più indietro, piccola sentinella, la tazza bianca dalle guance tonde dipinta dall’alto mostra una porzione del proprio interno, accogliente le nostre labbra e testimone delle nostre mani, che accarezzavano la superficie lucida, tiepida del calore del latte, quando al risveglio riemergevamo alla luce.

Qui un piccolo rettangolo di un bianco puro, un grumo perfetto di luce abbagliante, in centro appena sotto il perimetro del bordo, conduce verso lontananze indicibili, ben oltre la stanza dove potrebbe aver sede la fonte prima di quella stessa luce riflessa.

Nella apparente modestia della rappresentazione, nell’incavo di una tazza da latte, culla liscia di un bianco bambino, Morandi annida il varco candido che immette oltre le cose presenti, nel tempo dell’immaginazione e del ricordo che a queste stesse cose donano senso.

Un piccolo letto troppo corto è quello che in via Fondazza e a Grizzana contiene per il riposo il grande corpo di Morandi. Un letto da ragazzo per un pittore altissimo che vive circondato da cose minime con cui reinventa il mondo, bottiglie tonde dalle ombre a rettangolo, mazzetti di rose baciate dalla propria ombra, caraffe e vasi nuove torri nella

corona di una città, oggetti che si sciolgono in ectoplasmi mentre annegano nel bianco dei fogli di carta da acquerello. Brandelli di stoffe arrotolate come corolle di fiori, maioliche bianche e azzurre e scatoline gentili, barattoli in latta di Ovomaltina che Morandi calcina con un bianco spesso e opaco e li appronta per altre vite e per altre visioni.




Nota:


1) G. Morandi, Natura morta, 1957 (in L. Vitali, Morandi. Catalogo generale, Milano 1977-­‐1983, n. 1050

Io mescolo tutto *

di Maria Rita Bentini


Prima del corpo, il colore (1). Prima del rosso, il bianco. Il cerchio si chiude, infine, nella precisione della forma e, ancora, nel bianco.

Gina Pane, Azione sentimentale, 9 novembre 1973, Galleria Diaframma a Milano.

Nelle istantanee di Françoise Masson l'artista ha un aspetto minuto e gentile, e nella messa a fuoco lo spazio vuoto le si stringe intorno. Occupa la scena vestendo jeans bianchi, camicetta bianca, scarpe da tennis bianche ("era come se venisse dalla luna", ricorda un amico). La fotografia , "constat d'action", è una forbice che recide e decanta il fluire continuo del corpo nell'azione. Pronuncia l'ultima parola corporale di quanto detto per esteso in un tempo e un luogo consumato per sempre, così da offrire agli occhi reliquie, più che residui: con gesti forti e sospesi, intarsiando scacchiere, l'artista compone l'immagine delle immagini.

Rose rosse sul candido monocromo degli abiti e, in controcanto, rose bianche sul bianco; braccia che si chiudono e poi si aprono. Dolore: le spine di rosa confitte nell'avambraccio sinistro, in sequenza come grani di rosario , o alberi sugli argini, in pianura. Sul palmo della mano una lama sottile incide, sfiorando la pelle, l'effigie di una rosa.

Con rigore, cura attenta dei dettagli e concentrata selezione, il movimento teso dell'action si allontana, condensando la sua forza nell'immagine – colore. Non è il rosso.

Graffiato dalle ferite, il bianco non si contrae nè retrocede. Rimbalza piuttosto e, dilagando nella pagina, in sottofondo abbagliante , si trasforma in partitura. Ospita l'altro, un corpo fragile, leso perchè vivo. Vulnerabile e ferito per incrinare un altro corpo, quello plurale, chiuso e anestetizzato, cui le individualità che compongono il suo pubblico appartengono, ignare forse.

Un foglio bianco era stato l'oggetto in campo per la prima azione di Gina Pane, Blessure théorique (1970), tre fotografie: una lametta taglia con rapida esattezza un foglio di carta, un foglio posto a terra, un polpastrello, alludendo con ciò alla scrittura, alla superficie della terra, alla pelle. Simbolicamente allora (non ancora carnalmente) il taglio "apre" e intacca la distanza tra l’io e il mondo, tra il sé e gli altri.

Poco dopo il latte, quando l'e blanche si unisce nel calore della bocca al rosso sangue delle ferite. Mater purissima, Mater castissima, Mater inviolata, Turris ebùrnea, recitano le invocazioni rivolte a tutt'altra Donna, e create per altri riti.

Tra le opere estreme dell'artista i mantelli, le vesti dei santi e dei martiri, bozzoli di pura geometria entro cui i corpi fisici sfiorano l'assenza. Chirurgicamente divisi, appesi come sudari. Non avvolgono più, con andamenti lievi , le anatomie risorte che si affacciano vittoriose sul sepolcro ormai vuoto, nei dipinti antichi.

Da un lato la trasparenza del vetro, la luce assoluta, la parola, dall'altro il colore. "Il bianco ha il suono di un silenzio che improvvisamente riusciamo a comprendere. E' la giovinezza del nulla, o meglio un nulla prima dell'origine, prima della nascita. Forse la terra risuonava nel tempo bianco dell'era glaciale" scriveva Kandinski con assunti che l'artista aveva da tempo distillati e trasgrediti.

Avviene allora l'ultimo passaggio da un corpo all'altro, un dono, una spartizione. Il manteau de Saint Martin pour pauvre et riche (1986-1987), con un gesto d'amore, unisce in sè la povertà del feltro con la ricchezza della luce. La materia si confonde, laica, con la sua trasfigurazione.

Appunto, mischiando tutto.


Note:

*Il 30 ottobre 1976, alla Galleria d'Arte Moderna di Bologna, Gina Pane eseguiva un'azione intitolata Io mescolo tutto. In uno spazio rettangolare bianco due modelli reali, uno maschio e l'altro femmina, si lanciano una pallina "funzionando quasi da metronomo vivente". L'artista vestita di bianco, con pantaloni e scarpe da tennis entra e si siede in uno sgabello da bar. Ha gli occhi coperti da una mascherina, si dondola avanti e indietro, sembra perdere l'equilibrio, cadere. Chi registra l'azione con la cinepresa e la macchina fotografica invade lo spazio dell'azione. Gina Pane si dirige verso un angolo del muro dove è appoggiata una lastra quasi invisibile di vetro, le luci si spengono e si sente il rumore del vetro che cade a pezzi. Le luci si riaccendono, l'artista è a terra in posizione fetale, si alza, si dirige verso un angolo della stanza e comincia a giocare con un gioco infantile, tipo Lego, posato sul pavimento. Prende una scheggia di vetro e si incide l'avambraccio. La ferita disegnata segue la traccia delle forme che compongono il gioco, a terra.(L.Vergine, Gina Pane, la cocaina e Fra Angelico, in rivista Bologna, 1976, pp. 33-34, http://www.artslab.com/data/img/pdf/025_30-34.pdf)


1. Gina Pane (Biarritz, 1939- Paris ,1990) comincia il suo percorso dalla pittura all’Ecole nationale supérieure des beaux-arts a Parigi dal 1961 al 1966, poi al l’Atelier d’art sacré di Edmée Larnaudie (tra 1961-1963) , mentre dal 1975 al 1990 insegna pittura all'Ecole de Beaux Artes di Le Mans. In contemporanea, nel 1978, crea un atelier di performance al Centre Georges Pompidou. Per il ruolo della pittura e del colore, lè ricca di materiali la mostra che si è da poco tenuta al Mart di Rovereto e il volume-catalogo, Gina Pane (1939-1990). È per amore vostro: l'altro, a cura di Sophie Duplaix con la collaborazione di Anne Marchand, Actes-Sud, Arles 2012. Nei suoi scritti anche la composizione della pagina è significativa: attribuisce un certo valore allo spazio, o ritorna alla linea; di tanto in tanto si ritrova una sola frase su una pagina interamente bianca, cfr. Gina Pane, Lettre à un(e) inconnu(e), Paris 2004, edizioni ENSBA (Ecole Nationale Supérieure des Beaux-Arts), collection Ecrits d’artistes, testi raccolti da Blandine Chavanne et Anne Marchand, con la collaborazione di Julia Hountou.











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Film Bianco. Immersioni oniriche ed esperienza cinematografica

di Marco Bertozzi


In una mostra sull’abbagliante stupore del guardare, il bianco al cinema mi ricorda l’esperienza estetica del risveglio. Del duplice risveglio. Da un lato quello della visione, del film che sta finendo e dei sottotitoli che scorrono sulla luce accesa in sala, sempre inopportuna, sempre troppo presto. Quel piacere sonnolento rivendicato da Roland Barhes in Uscendo dal cinema, nella riacquisizione del corpo dopo lo stato ipnotico della visione. Un erotismo moderno, che ci accompagna nel buio della notte metropolitana, lasciandoci soli, a riflettere su quelle ombre baluginanti.

Dall’altro il risveglio del mattino, dopo l’esperienza onirica, in cui la luce lattiginosa del giorno entra nella stanza e ci inonda col suo principio di realtà. La figura è quella della dissolvenza incrociata, quell’obbligo a riconoscere le rigide geometrie del mondo mentre si dirada la promessa di un vento che sparigli ancora i nostri sguardi. Nella sudorazione di un senso languido, non ancora espresso, subito bloccato dalla presunta chiarezza della luce diurna (luce che, paradossalmente, ammanta di opaco).

In una esposizione sulla perdita e gli abbandoni - e sulle immagini che affiorano dalla memoria – questi diversi momenti del risveglio hanno un luogo d’incontro nell’addormentarsi al cinema. Non so bene come possa succedere: motivi gastrici, stanchezza serale - forse noie abissali? - fattostà che mi accade sempre più spesso. Di solito, al risveglio, oltre a una piccola vergogna, ho l’impressione di avere assistito a un film profondo ed elegante. Sovrappongo le due esperienze – quella del sogno e quella cinematografica – in un terzo tempo onirico, in cui resti psichici e immagini perdute montano visioni stralunate. Il farsi nuvola di questa esperienza mette alla prova il mio discernimento e scandisce un ritmo pausato, quasi ozioso, nella costruzione di un senso rivisitato.

Il fatto che l’opera – come la nuvola – cambi continuamente sotto/dentro le mie palpebre stanche, evoca alcune considerazione di François Jullien, in La grande image n’a pas de forme. Siamo fra turbolenze visive suscettibili di accogliere, proprio perché instabili, qualsiasi forma. Jullien parla della pittura cinese, della logica respiratoria di forme che si sfaldano nei loro vapori, in perenne modificazione atmosferica. Caratteristiche evidenziate sin dal supporto del rotolo, in carta o seta, stropicciato per ottenere una specie di marmorizzazione abitata da un rapporto dialettico con la figura. Come la pellicola consunta, segnata da graffi, decadimenti e mirabili imperfezioni. Ecco, lontano delle imperanti mitologie dell’alta definizione, dai proclami del tutto a fuoco, del nitido, del ben definito, in questa lattea catalessi del cinema vivo, alcune tensioni della materia, la sua esplosione in onde e in astratti puntinii luminosi. Nulla a che fare con la storia “chiara” che il film sta tentando di raccontarmi.

Un percorso di messa a giorno che è anche di messa a distanza e mi riporta, in uno scavo archeologico, ad altri schermi bianchi. In un torrione della Rocca Sanvitale, a pochi passi da un episodio della metamorfosi di Ovidio, sosto qualche minuto davanti a un lindo tappetino posato su un tavolaccio di legno. Sono al buio e osservo per la prima volta le immagini della camera oscura di Fontanellato. Attraverso un foro praticato nel torrione della rocca, alla sommità di una tramoggia lignea ancorata alle feritoie del bastione, gli scenari di Piazza Matteotti e delle vie Luigi e Jacopo Sanvitale si proiettano davanti ai miei occhi. Sogno o son desto? Intravedo un gruppo di ragazzi rincorrersi, un’automobile penetrare l’isola pedonale attorno alla fortezza, le fronde degli alberi muoversi sui prospetti sbrecciati di un portico… Nessun dispositivo moderno origina queste visioni. Strano che qualcosa si muova in questo buio silenzio: oggi non mi abbandona l’idea che quelle immagini fossero solo un inganno ipertecnologico. Oppure mi fossi addormentato, ancora una volta, fra i lattiginosi spiragli luminosi della Rocca di Fontanellato.